C’erano anni in cui indossare Fiorucci non significava soltanto vestirsi, ma abitare un sogno collettivo. Negli anni Settanta e Ottanta il marchio fondato da Elio Fiorucci era molto più di un brand di moda: era un linguaggio universale di libertà, ironia e sperimentazione, un codice riconoscibile che legava Milano a Londra, New York a Tokyo.
Lo store di Milano, e ancor di più quello leggendario di New York a Lexington Avenue, non erano semplici negozi: erano teatri permanenti della creatività. Chi vi entrava non trovava soltanto abiti, ma un’esperienza totale: musica alta, luci al neon, installazioni artistiche, party improvvisati. Erano luoghi in cui gli abiti erano solo il pretesto per vivere un’atmosfera diversa da qualunque altra. Keith Haring dipingeva le pareti, Andy Warhol osservava con sguardo complice, Madonna muoveva i primi passi verso l’icona che sarebbe diventata, Grace Jones si riconosceva in un’estetica che parlava la sua stessa lingua.
Fiorucci era il marchio che abbatteva i confini: tra moda e arte, tra musica e vita notturna, tra abito e manifesto culturale. I suoi angioletti cherubini, le stampe ironiche, i jeans stretch che sembravano una seconda pelle dicevano a tutti che vestirsi poteva essere un atto di gioia, una dichiarazione di appartenenza, un gioco senza regole. Non si trattava di moda intesa come lusso esclusivo, ma di una festa democratica: chiunque poteva partecipare, chiunque poteva sentirsi parte di quel movimento pop che anticipava la globalizzazione culturale.
Per le generazioni cresciute in quegli anni, Fiorucci rappresentava la libertà di osare. Entrare in uno dei suoi store significava respirare la stessa aria dei club underground, della disco, delle strade piene di graffiti. Era un marchio capace di dare forma all’energia di un’epoca che credeva nelle possibilità infinite del futuro.
Poi, come spesso accade ai pionieri, il tempo ha presentato il conto. Negli anni Novanta, tra crisi finanziarie e la pressione crescente dei colossi del lusso, Fiorucci ha perso parte del suo smalto. È rimasto nell’immaginario come un ricordo luminoso, un archivio di immagini pop e pubblicità iconiche che non hanno mai smesso di circolare, ma senza più quella centralità culturale che aveva conquistato.
Oggi, però, il mito non si accontenta della nostalgia. Il marchio sta vivendo un riposizionamento ambizioso e coraggioso, guidato da una nuova leadership e dalla visione creativa di Francesca Murri. Le sfilate a Milano hanno riportato in passerella la leggerezza e l’ironia del DNA Fiorucci, reinterpretate in chiave contemporanea, con attenzione alla qualità e alla tracciabilità dei prodotti. Non solo moda, ma anche cultura: la mostra alla Triennale di Milano dedicata a Elio Fiorucci ha ricollegato il presente alla memoria di chi ha inventato un immaginario senza tempo, mentre il progetto Casa Fiorucci promette di restituire al marchio il ruolo di piattaforma creativa, luogo di incontro tra discipline e generazioni.
Il rilancio non è soltanto un’operazione di mercato: è un tentativo di ricucire un legame emotivo con chi ha amato Fiorucci nel passato e di conquistarne di nuovi, raccontando ancora una volta che la moda può essere più di un abito. Può essere un gesto di libertà, un’icona da reinterpretare, una comunità che prende forma attorno a un paio di ali cherubine stampate su una t-shirt.
Se negli anni Settanta entrare in un negozio Fiorucci significava sentirsi parte di un’avanguardia globale, oggi il rilancio punta a restituire quello stesso brivido, aggiornato per una generazione che ha bisogno di autenticità e coraggio. Perché il mito, quando trova il modo di reinventarsi, non appartiene mai solo al passato: diventa, ancora una volta, futuro.
Credit Image: fiorucci web site
https://www.fiorucci.com/eu/
di Emma Mariani
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