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    Home»Senza categoria»La città proibita: Quanto sei bella Roma in un film di kung-fu. Il film di Gabriele Mainetti è su Netflix
    Senza categoria

    La città proibita: Quanto sei bella Roma in un film di kung-fu. Il film di Gabriele Mainetti è su Netflix

    By 14 Luglio 2025Nessun commento7 Mins Read
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    La Sposa di Kill Bill e O-Ren Ishii, la sua rivale, allo stesso tempo. È Mei, la protagonista de La città proibita, il nuovo film di Gabriele Mainetti, ormai talento acclarato del nuovo cinema italiano. Uscito a marzo al cinema, La città proibita arriva ora su Netflix e in home video (ed è ancora in qualche sala). Ora non avete scuse: è un film da vedere. Mei, come La Sposa, è una combattente letale in cerca di vendetta per qualcosa che l’ha toccata da vicino. Di O-Ren ha gli occhi a mandorla e il fascino della bellezza orientale. E la tempra di combattente. E Gabriele Mainetti, come approccio e come metodo, è un piccolo Quentin Tarantino. Mei è una ragazza cinese che si ritrova a Roma, all’Esquilino, il quartiere più cinese, e multietnico, della città. E La città proibita è un film di kung fu che riesce a vivere in un film italiano assorbendo alcuni colori del nostro cinema, ma rimanendo un grande film di kung fu di livello internazionale. Mainetti voleva fare questo. E ci è riuscito.

    Come in ogni film d’arti marziali che si rispetti, quella de La città proibita è una storia semplice, lineare, anche se piena di temi e di sentimenti. Mei (Yaxi Liu), una misteriosa ragazza cinese, arriva a Roma in cerca della sorella scomparsa. Il cuoco Marcello (Enrico Borello) e la mamma Lorena (Sabrina Ferilli) portano avanti il ristorante di famiglia tra i debiti del padre Alfredo (Luca Zingaretti), che li ha abbandonati per fuggire con un’altra donna. Quando i loro destini si incrociano, Mei e Marcello combattono antichi pregiudizi culturali e nemici spietati, in una battaglia in cui la vendetta non si può scindere dall’amore.

    Sì, si parla di vendetta. E Gabriele Mainetti costruisce un’eroina degna del cinema di Quentin Tarantino. Ma la rende ancora più umana della Sposa in giallo di Uma Thurman: Mei è più fallibile, non è imbattibile, è ferita nell’anima e poi, durante i combattimenti, anche nel corpo. Ma ce le hanno tutti le ferite: ce le hanno i buoni, ce le hanno i cattivi, ce le ha anche chi non sa ancora se fa parte degli uni o degli altri. È questa che è sempre stata la forza di Gabriele Mainetti: creare dei personaggi così veri, così intensi da riuscire a sospendere l’incredulità nel pubblico.

    Da Lo chiamavano Jeeg Robot a Freaks Out, arrivando a La città proibita, Gabriele Mainetti è il regista italiano che più di ogni altro riesce a rendere credibile l’incredibile. Il suo segreto è questo, e non è affatto cosa da poco. Lo fa rendendo l’incredibile molto terreno, portandolo in basso, al nostro livello. Portando storie fantastiche nei quartieri di Roma, facendoci sentire la parlata romana, facendoci vedere i personaggi acciaccati, impicciati, anche quando sono degli eroi. Lo chiamavano Jeeg Robot portava il cinema dei supereroi a Tor Bella Monaca, Freaks Out era Spielberg e gli X-Men contaminati con L’armata Brancaleone, un classico della Commedia all’Italiana, nella Roma del 1943. Ecco che cos’è Gabriele Mainetti. Uno che oggi può girare un film di arti marziali in Italia ed essere assolutamente credibile.

    E tutto questo a Roma. Che è, ma solo per un attimo, anche quella di Vacanze romane e dei giri in vespa che Marcello fa insieme a Mei per farle vedere le bellezze della città, usando Roma per farla innamorare. Ma per tutto il film è un’altra Roma. È la Roma di oggi, quella multietnica, quella degli stranieri sfruttati, delle guerre tra poveri, della gente che dice ancora “questa è casa nostra”.  È la Roma di oggi, quella che si contamina continuamente con altre culture, proprio come fa il cinema di Mainetti che si fonde con il cinema lontano dal nostro. Mainetti, ancora una volta, riesce a rendere Roma cinematografica, ma non nel modo in cui l’abbiamo sempre considerata tale. La rende un luogo nuovo, inedito, pur lasciando che sia se stessa, giocando con gli stereotipi di Roma al cinema, ma usandoli per creare una narrazione nuova della città.

    Nella prima scena, Mei combatte duramente in un mondo che sembra la Cina. Ma, uscita dalla porta del ristorante di Wang, il villain della storia, si trova in pieno Esquilino, a Roma. Ecco, La città proibita entra ed esce continuamente da quella porta, oscilla di continuo tra Roma e la Cina, trovando sempre un equilibrio. Così, in quella passeggiata tra i Fori illuminati, Mei e Marcello si scontrano prima di baciarsi, si battono prima di fare l’amore, come ne La tigre e il dragone.

    Ne La città proibita c’è tanto cinema, che non è mai copia, non è mai citazione pura. È cinema visto e amato, assimilato, digerito, entrato nel dna di un amante della Settima Arte in modo così profondo da non poter non uscire nel momento in cui Mainetti si trova a produrre immagini. C’è Grosso guaio a Chinatown e i movimenti di macchina nei sotterranei, c’è L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente, il film in cui Bruce Lee si batteva a Roma con Chuck Norris. C’è anche un po’ del suo Lo chiamavano Jeeg Robot, e quella felpa con il cappuccio calato sulla testa. Ci sono molte storie eppure è una storia nuova.

    Gabriele Mainetti è un po’ il nostro Quentin Tarantino, fatte le debite proporzioni. Prende da altri immaginari e riscrive in qualcosa di nuovo. Fonde alto e basso, cinema storico e cultura pop, scene madri e dialoghi reali. È una cosa in puro stile Tarantino prendere attori molto noti come Sabrina Ferilli, Marco Giallini e Luca Zingaretti e usarli in modo nuovo, non scontato. Ed è molto da Tarantino prendere una stunt woman, una maestra in scene d’azione, e renderla un’attrice vera, una protagonista. Tarantino lo aveva fatto in Grindhouse – A prova di morte con Zoë Bell, la controfigura di Uma Thurman in Kill Bill. Mainetti lo ha fatto con Yaxi Liu, che era stata la stunt nella versione live action di Mulan. Era convinto di andare a cercare la sua protagonista in Cina, in una scuola di Kung Fu, ma l’ha trovata su Instagram, quando un suo collaboratore gli ha fatto vedere la sua reel. E ha capito che era una che combatteva da sempre. Ancora una volta torna questa parola: la credibilità.

    E torniamo a quella fallibilità di Mei. A quelle ferite. La grande cosa de La città proibita è che niente del cinema di kung fu orientale è adattato o piegato al gusto di un certo cinema di casa nostra. C’è tutta la violenza di quel tipo di cinema, la sua spietatezza. Ci sono il furore, la disperazione. Come in ogni film di Gabriele Mainetti, c’è sempre l’azione, c’è sempre la risata, ma c’è sempre anche il dramma. C’è lo scontro di civiltà. O il confronto tra due civiltà, a seconda che si voglia guardare a chi non cerca affatto il dialogo o a chi prova a conoscere l’altro. Ma La città proibita sembra volerci dire che il futuro è la contaminazione. Le seconde generazioni che fanno canzoni in italiano, i figli dei cinesi che fanno il rap. I ragazzi africani che dicono “mortacci tua”. E i cinesi che amano l’amatriciana. Il futuro è questo.

    di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

    Fai clic qui per vedere lo slideshow.

    L’articolo La città proibita: Quanto sei bella Roma in un film di kung-fu. Il film di Gabriele Mainetti è su Netflix proviene da Daily Mood.

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