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    Home»Senza categoria»Il rifugio atomico: dagli autori de La casa di carta arriva un altro thriller claustrofobico
    Senza categoria

    Il rifugio atomico: dagli autori de La casa di carta arriva un altro thriller claustrofobico

    By 19 Settembre 2025Nessun commento5 Mins Read
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    “Sono Max. E a ogni prima volta nella mia vita lei c’era. Anche la prima volta che ho ucciso il mio primo amore…” Inizia così Il rifugio atomico, la nuova serie di Alex Pina ed Esther Lobato, gli autori de La casa di carta, in streaming su Netflix dal 19 settembre. Inizia con una di quelle backstory toccanti ed eccessive – ricordate quella di Tokyo? – a cui gli autori spagnoli ci hanno abituato in questi anni. È il modo per cominciare a entrare in empatia con il protagonista, quello che sarà il nostro Caronte e ci porterà dentro una nuova discesa agli inferi, o da qualsiasi altra parte si tratti, ma comunque molto, molto giù nel sottosuolo. Il nostro anfitrione stavolta è Max, un ragazzo di 22 anni che ha appena scontato 3 anni di carcere per omicidio colposo. E, appena fuori, viene accolto dal padre e portato in un rifugio atomico molti metri sottoterra. Ma è solo l’inizio.

    Il rifugio atomico, la nuova serie di Vancouver Media, immagina che, in un futuro vicinissimo, un gruppo di persone molto ricche scelga di rifugiarsi in un bunker a prova di qualsiasi attacco nucleare, tanto sicuro quanto lussuoso e accessoriato. In caso di catastrofe, i nostri privilegiati ospiti avranno tutto quello che serve per continuare a vivere agiatamente e a lungo. Qui Max incontra la sua famiglia e anche un’altra, quella della sua ragazza. Non è facile, all’inizio. Immaginate se la guerra atomica dovesse avvenire davvero.

    È naturale pensare a La casa di carta sin dalle prime immagini de Il rifugio atomico. Dopo alcune prove che non sono riuscite a replicare il successo di quella serie, Alex Pina ed Esther Lobato provano in qualche modo a riprodurre la fortunata formula della loro prima volta. Ci sono tante cose de La casa di carta che tornano in questa serie. A partire del senso di claustrofobia. Anche qui ritorna il topos delle persone costrette in un posto chiuso e isolato dal resto del mondo. Tornano le relazioni conflittuali che, con le persone a contatto 24 ore su 24, sono destinate ad esplodere. Torna il contrasto su due dimensioni, il dento e il fuori, che ancora una volta sono il noto e l’ignoto. Solo che qui è molto più ignoto che ne La casa di carta. Tornano i rapporti tra padri e figli, tra innamorati. Tornano le uniformi: grigie per gli ospiti, arancioni per i gestori della struttura e gli impiegati. Torna anche il discorso della comunicazione e della percezione, dell’alterazione delle informazioni e delle notizie.

    Se ha una parentela diretta con La casa di carta, Il rifugio atomico ha anche un’idea che viene fuori da un grande film spagnolo di vent’anni fa, Apri gli occhi di Alejandro Amenabar. Come quel film, anche questo ci dice che siamo in balia delle grandi aziende private. In Apri gli occhi una di queste prometteva, dietro lauto compenso, l’immortalità e la vita eterna. Qui una compagnia promette, se non eterna, almeno la vita. Amenabar lo raccontava vent’anni fa, certo, Pina ci arriva adesso che è tutto piuttosto chiaro. Non sono i governi, ma sono i grandi colossi economici a comandare il mondo.

    E questo ci porta a un altro discorso, quello della lotta di classe. Un elemento che era presente già in modo molto potente ne La casa di carta, che però ce la mostrava dal punto di vista dei paria, i Robin Hood che rubavano ai ricchi per dare ai poveri, cioè a se stessi, cioè a loro. Ma non solo. In questo senso c’era un senso di gioiosa rivoluzione, di rivalsa. La casa di carta, a suo modo, era catartica. Qui i poveri non ci sono (anzi, probabilmente qualcuno degli inservienti lo è). Vediamo solo i ricchi perché sono solo loro che possono permettersi la salvezza. E, man mano che il mondo va avanti, i padroni sono sempre loro. Certo, lo sguardo di Alex Pina su di loro è beffardo, tragicomico. Ma Il rifugio atomico ci dice questa amara verità.

    La dialettica tra ricchi e poveri, serviti e servitori porta Il rifugio atomico verso un discorso che sta dalle parti del cinema di Bong Joon-ho, e dei suoi film come Parasite e Snowpiercer. Il livello artistico è diverso, ovviamente, anche i toni lo sono. Ma i temi in qualche modo si avvicinano. A proposito di toni, quello de Il rifugio atomico è più cinico, beffardo, disilluso rispetto a quello de La casa di carta. Ma i tempi sono cambiati, inutile negarlo. Non a caso, gli autori immaginano che possa scoppiare la Terza Guerra Mondiale. Il rifugio atomico non riesce a conquistare come La casa di carta: a mancare è soprattutto l’empatia con i personaggi.

    Lungo la storia c’è anche una riflessione sul cinema e la tv, insomma sulle immagini in movimento. E non è banale. Oggi le immagini di finzione sono sempre più in difficoltà, perché la realtà supera ogni immaginazione, da un lato, e perché le immagini del reale arrivano ovunque e da ogni fonte. E poi c’è il rovescio della medaglia. Se le immagini di finzione fanno fatica a inseguire la realtà, dall’altro lato possono anche facilmente riprodurla, se trattate ad arte. E realtà e finzione sono sempre più difficili da distinguere.

    di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

    Fai clic qui per vedere lo slideshow.

    L’articolo Il rifugio atomico: dagli autori de La casa di carta arriva un altro thriller claustrofobico proviene da Daily Mood.

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