“Dicono che quando muori la tua vita ti scorre tutta davanti. Io non ho visto un…” Inizia così, con la voce narrante di Pietro Castellitto, alias Toni della Duchessa, Il Falsario, il film di Stefano Lodovichi che è stato presentato alla Festa del Cinema di Roma, nella sezione Grand Public, e che vedremo su Netflix dal 23 gennaio. Toni racconta la storia da morto, come William Holden in Viale del tramonto. “Un prete, un operaio e un artista partono per Roma. Sembra una barzelletta. E invece stavamo per fare la storia”. È questo che ci racconta, entrando immediatamente in empatia con noi, Toni. E parte la musica: Iggy Pop, The Passenger. E capiamo immediatamente che siamo negli anni Settanta.
“Sei un ladro o un artista?” “Che differenza fa?” è il dialogo tra Donata (Giulia Michelini) e Toni (Pietro Castellitto), la gallerista e l’artista, che dà un po’ il senso a tutto il film. Quando Toni arriva in città nel suo bagaglio ha soltanto il talento per la pittura e il sogno di diventare un grande artista. Ma la sua fame di vita, il destino e forse anche la Storia lo porteranno a diventare il più grande di tutti i falsari, nonché una figura centrale nei misteri più fitti del nostro Paese.
Quella de Il Falsario è la Roma degli anni Settanta, delle barbe e dei capelli lunghi, dei giubbotti di pelle. È la ricostruzione storica, perfetta e molto accattivante, di Romanzo criminale. Non a caso alla produzione c’è Cattleya, che aveva dato vita al film e alla serie. È una formula conosciuta è sicura. È qualcosa che sa di già visto. Ma non si tratta di un difetto: non è un già visto che annoia e che troviamo ripetitivo, ma piuttosto il già visto rassicurante, che incanala un film in una categoria precisa e immediatamente riconoscibile. Ed è giusto così. Un committente come Netflix deve andare sul sicuro, deve poter dare al pubblico, italiano ma anche internazionale, un prodotto che possa facilmente capire e adottare. Il falsario è crime ed è period drama, è un gangster movie senza esserlo, è avventuroso e romantico. È un film che, fino a qualche anno fa, sarebbe andato in sala e avrebbe avuto un buon successo. Se Netflix ha deciso di produrlo e destinarlo alla piattaforma avrà sicuramente fatto i suoi calcoli. E, probabilmente, saranno esatti.
La differenza tra il nostro Toni e gli (anti)eroi di tanti crime all’italiana è che lui è un criminale per caso, un uomo che si trova a delinquere e a passare attraverso i lati più oscuri della Storia dell’illegalità italiana suo malgrado, quasi senza rendersene conto. Un po’ un Forrest Gump della malavita. Sembra quasi che non possa farne a meno. Ha un grande talento nelle mani, capaci di dipingere, scrivere e riprodurre qualsiasi cosa, ma non ha la visione e il genio di un artista, non ne ha le idee. È bravissimo solo quando riesce a copiare. E finisce per fare quello. E così, alla fine, finisce per copiare le vite degli altri, quelle dei banditi che si trova intorno.
Proprio come faceva Romanzo criminale, la storia di Toni finisce per incrociarsi con la Storia d’Italia: gli anni di piombo, le Brigate Rosse, le stragi nere, il sequestro Moro, l’assassinio di Impastato. E così, continuando a guardare il film, si rimane affascinati, perché oltre a conoscere la vita particolare di Toni, si ripercorre quella italiana.
Il Falsario è un film di attori. Pietro Castellitto ha il physique du rôle di un artista prestato al crimine che criminale non lo è mai fino in fondo. Come bandito, Toni va avanti fino a un certo punto, ma è inadeguato, improbabile, non credibile. E Castellitto rappresenta bene questo suo essere “alieno” in un ambiente di cui prova a fare parte. Ma sono interessanti molti altri personaggi. Don Vittorio svela un Andrea Arcangeli inedito, pacioso e pulito (ma fino a un certo punto, vedrete…) e in continuo imbarazzo verso tutto quello che fa. Pierluigi Gigante si dimostra ancora una volta versatile, passando agli antipodi dell’arco costituzionale, diventando un terrorista delle BR dopo essere stato un celerino in ACAB: per farlo bisogna essere degli ottimi attori. E in questo eccelle Claudio Santamaria, nei panni del “Sarto”, misterioso uomo onnisciente e onnipotente, probabilmente parte dei servizi segreti, che manipola tutti senza rischiare mai in prima persona. E poi ci sono le donne: una Giulia Michelini mai così luminosa e sexy, una vera sorpresa, e una Aurora Giovinazzo che, seppur in poche sequenze, riesca a illuminare ulteriormente il film.
Il Falsario, allora, è un film furbo, molto furbo, perché prende una bella storia e la veicola attraverso codici narrativi noti ervizi segreti, che manipola tutti dall’ collaudati presso il pubblico. Ma il know-how di chi ha già fatto operazioni di questo tipo la rende un’opera riuscita ed estremamente piacevole. Il fatto che si muova dentro binari già codificati non vuol dire che non possa avere momenti imprevedibili, su tutti il finale a sorpresa. Ma anche alcuni momenti musicali, come Senza fine di Gino Paoli montata su una partita di calcio che sembra presa dal cinema di Salvatores o Il mondo di Jimmy Fontana sull’ultima scena o, ancora, una rapina girata sulle note di Let’s Stick Together di Bryan Ferry. E ancora, l’evoluzione di Don Vittorio, la sua vanità, tenuta nascosta per gran parte del film e giocata a sorpresa come carta vincente e risolutiva. Per arrivare al messaggio del film, che è uno degli interrogativi chiave dei nostri tempi. “Per arrivare dove vuoi arrivare, cosa sei disposto a fare?”
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
Fai clic qui per vedere lo slideshow.
L’articolo Festa del Cinema di Roma, Il Falsario: Pietro Castellitto è un artista del falso nel nuovo “romanzo criminale” Netflix proviene da Daily Mood.