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    Home»Senza categoria»It’s Never Over: Jeff Buckley: La musica di un artista unico non è mai finita
    Senza categoria

    It’s Never Over: Jeff Buckley: La musica di un artista unico non è mai finita

    By 4 Novembre 2025Nessun commento8 Mins Read
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    Brad Pitt avrebbe voluto interpretare Jeff Buckley, uno dei più grandi artisti della sua generazione, in un film di finzione. Ora, con la sua Plan B, è tra i produttori un documentario su di lui, l’intenso e toccante It’s Never Over: Jeff Buckley. Alla Festa del Cinema di Roma, il Teatro Olimpico è ormai il luogo deputato ai film dedicati alla musica. E, ogni volta, in quel teatro è un po’ come vedere un film e allo stesso tempo assistere a un concerto. Nell’ultima edizione della Festa è stato meraviglioso vedere proprio qui questo documentario molto speciale, un grande lavoro sulla memoria di un artista unico e irripetibile. Un altro artista scomparso troppo presto, in un modo completamente diverso da quello che si potrebbe immaginare per una rockstar. It’s Never Over: Jeff Buckley ricostruisce la sua vita e la sua arte attraverso una serie di materiali d’archivio e di preziose testimonianze, tra cui quella della madre Mary Guibert, quelle delle ex compagne Rebecca Moore e Joan Wasser, e degli ex compagni di band di Jeff, tra cui Michael Tighe e Parker Kindred. E, ancora, con il racconto di artisti a lui vicini come Ben Harper e Aimee Mann.

    Jeff Buckley è stato il figlio di un altro grande artista, il cantautore Tim Buckley, anche lui scomparso prematuramente per suicidio. Jeff non ha mai davvero conosciuto suo padre. Tim Buckley, quando aveva saputo che la sua compagna, la madre di Jeff, stava aspettando un figlio, se n’era andato. Lei gli avrebbe fatto conoscere Jeff solo molti anni dopo, in occasione di un concerto a New York. Il bambino aveva sette anni. In seguito passa una settimana con il padre in California e poi torna a casa. Padre e figlio non si sarebbero più visti: Tim Buckley si sarebbe suicidato pochi giorni dopo. “Cosa hai ereditato da tuo padre?” gli chiederanno, più tardi, i giornalisti. “Le persone che ricordano mio padre” risponde lui. È un modo per dire che non amava parlarne.

    Ma Jeff Buckley non aveva solo i geni del padre. C’era anche sua madre, una grande appassionata di musica. E così c’era sempre musica in casa, da Judy Garland ai Led Zeppelin. Jeff comincia a suonare e a cantare prestissimo, si esercita alla chitarra con i brani di Al Di Meola. E, molto presto, è in grado di cantare e suonare qualsiasi cosa. Nel documentario, in preziosissime immagini di repertorio, lo vediamo mentre esegue alla perfezione Roxanne dei Police, con la voce che sembra proprio quella di Sting. Jeff Buckley conosceva Šostakovič, un compositore di musica classica, aveva una voce con un’estensione di quattro ottave. Era molto più di un semplice musicista rock. Quando è salito alla ribalta, erano gli anni del grunge. E Jeff Buckley era il contraltare del grunge, e allo stesso tempo amava quel genere, soprattutto i Soundgarden. Era amico di Chris Cornell, un altro cantante dalla voce che sembrava venire dal cielo, un altro artista scomparso troppo presto. La musica di Jeff Buckley, lo avrete capito, non era facile da inserire nelle categorie che le radio e i media americani erano solti usare con la musica.

    Il film racconta anche il rapporto tra Jeff Buckley e il Sin-é, il famoso locale dell’East Village di New York che per Jeff Buckley è stato fondamentale. Jeff lavava i piatti là, e tra un lavoro e l’altro imbracciava la chitarra e si esibiva. Era un locale piccolissimo, da trenta, quaranta posti. Ma era la sua casa, il luogo dove sperimentare, dove far prendere vita a quel suono unico e a quelle canzoni così speciali. Dove trovare una comunità che lo incoraggiava. C’erano poche persone, all’inizio, ad ascoltare Jeff Buckley. Poi il locale comincia a diventare pieno zeppo, cominciano a formarsi lunghe code all’ingresso per ascoltare quel portento. Infine, al Sin-é cominciano ad arrivare i talent scout e i manager delle case discografiche. Di tutte le case discografiche. Jeff Buckley, che all’inizio suonava delle cover, aveva cominciato a cantare i suoi brani originali. E le major della discografia avevano capito di essere davanti a un grande talento.

    Jeff Buckley è scomparso giovanissimo e ha lasciato in eredità, da vivo, soltanto due dischi. Sono l’unico album vero e proprio, Grace, un capolavoro (il secondo album, Sketches For My Sweetheart The Drunk, non è stato finito ed è uscito postumo dopo un lavoro di produzione di Tom Verlaine) e l’album dal vivo Live At Sin-é, registrato in quel famoso locale. Ecco, assistere al film It’s Never Over: Jeff Buckley, è sentire la sua musica per quasi due ore, un vero long playing, l’ascolto più lungo di qualcosa legato a lui che abbiamo fatto finora. Per questo è un’esperienza intensa e totalizzante.

    It’s Never Over: Jeff Buckley è un film meraviglioso perché Jeff Buckley è meraviglioso. Ogni volta che lo abbiamo ascoltato, e più che mai in questo film che rivela la sua arte, la cosa che ci ha colpito è l’assoluta libertà che aveva quella voce di fare quello che voleva, di andare ovunque si potesse immaginare, e anche oltre. E, contemporaneamente, anche la grande libertà delle sue dita di muoversi sulla chitarra e produrre suoni eterei, liquidi avvolgenti. Ci viene in mente quel verso di Fabrizio De André che diceva “pensavo è bello che dove finiscono le mie dita debba in qualche modo incominciare una chitarra”. Ecco, in Jeff Buckley dita e chitarra sembrano essere un tutt’uno, e a sua volta il suono della chitarra sembra essere un tutt’uno con la voce. C’è una totale assenza di limiti, in Jeff Buckley, a quello che un musicista può fare, un andare oltre le frontiere del suono conosciuto, e anche al di là di tutti gli steccati che siamo soliti mettere tra un genere musicale e l’altro.

    Sì, Jeff Buckley era un’anima e mille anime. Era Nusrat Fateh Ali Khan e i Nirvana, era Nina Simone e i Soundgarden, Edith Piaf e i Led Zeppelin, Leonard Cohen e gli Smiths. E, naturalmente, non era nessuna di queste cose. Era un tipo schivo, che voleva vivere di musica, ma che soffriva il successo. “Quando sarò morto la mia musica sarà l’unica cosa che rimarrà” dice in una vecchia intervista. E questo è stato vero.

    Ti capitava, a metà degli anni Novanta, di ascoltare qualcosa di mai sentito prima uscire da un altoparlante e di fermarti, qualsiasi cosa tu stessi facendo. Quella musica era di Jeff Buckley. Già colpiti al cuore da Buckley, non ci eravamo però ancora resi conto – non c’era internet e i media internazionali da noi arrivavano poco – di quanto i grandi della musica lo avessero riconosciuto non solo come uno di loro, ma il migliore di tutti. La stampa lo chiamava il nuovo Bob Dylan, in modo inesatto più che temerario. A Londra, una sera, i Radiohead vanno a un suo concerto e, ispirati da lui, devono lasciare il concerto di colpo per andare in studio a incidere una canzone. Era Fake Plastic Trees. Ben Harper e Chris Cornell parlano di lui come del migliore di tutti, e non riescono in alcun modo a nascondere la loro ammirazione. E con loro anche Robert Plant e Paul McCartney, due che di grande musica l’hanno fatta. Non c’erano invidie, non c’erano gare. Per tutti Buckley era il migliore. È come se con lui non ci fosse competizione. Che fosse, sin dall’inizio, fuori categoria.

    Il film indaga anche i lati oscuri, e quel capitolo che poi porta alla sua fine. Negli ultimi anni di vita era diventato maniaco depressivo, o almeno così credeva. Aveva litigato con la madre, che per lui era tutto. Per incidere il suo secondo album, attesissimo dopo quel capolavoro che era Grace, aveva una pressione enorme. Era andato a Memphis, dove sembrava aver trovato la giusta serenità per scrivere. E dove lo stava raggiungendo la band per cominciare, finalmente, a incidere. E, probabilmente proprio mentre l’aereo dei suoi musicisti stava toccando terra a Memphis, questa Terra Jeff Buckley la stava lasciando. Jeff Buckley è morto annegato in un affluente del Mississipi, nessuno sa come. Il fatto è che, essendo una rockstar, si potrebbe pensare a un suicidio, o a una morte causata dall’uso di alcol e droghe. No, Jeff Buckley aveva bevuto forse una birra e si era gettato nel fiume per nuotare. Un tratto particolarmente scivoloso e le correnti, forse un gorgo creato da un battello che stava passando, hanno fatto il resto. Una fine beffarda, ingiusta, assurda. Che ci ha privato presto, troppo presto, di un grandissimo della musica. “Eravamo giovani, quando cresci tutte le cose che ti sembrano urgenti svaniscono” sentiamo dire, a un certo punto, nel documentario, da chi lo conosceva molto bene. “Mi sarebbe piaciuto che fosse cresciuto per vedere tutte quelle cose svanire”.

    di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

    Fai clic qui per vedere lo slideshow.

     

    L’articolo It’s Never Over: Jeff Buckley: La musica di un artista unico non è mai finita proviene da Daily Mood.

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